La politica non è più un problema di qualità, ma di fedeltà. Fai carriera, hai l'onore di rappresentare la società non perchè hai dimostrato di meritare, ma solo se hai dimostrato fedeltà al segretario Turno (eroe, bello, rottamatore, toscano) o del segretario di turno.
E dopo questo "assioma", vero perchè evidente, anche se dimostrabile, si ripresenta il problema della legge elettorale. L'origine di tutti i mali. Tutto parte dalla legge elettorale. Poichè in democrazia la selezione della classe dirigente è demandata al voto, allora in base a come votiamo scegliamo la classe dirigente, cioè la scelta di quelle persone che avranno il compito di fare le scelte per la nostra società. Allora se votiamo con un sistema avremo la scelta di un tipo, se voteremo con un altro avremo la elezione di un altro tipo di persone o personalità..
E' particolarmente interessante la riflessione di Gustavo Zabrebelsky presidente emerito della Corte Costituzionale, pubblicata su Il Fatto Quotidiano del 0.01.2015.
E dopo questo "assioma", vero perchè evidente, anche se dimostrabile, si ripresenta il problema della legge elettorale. L'origine di tutti i mali. Tutto parte dalla legge elettorale. Poichè in democrazia la selezione della classe dirigente è demandata al voto, allora in base a come votiamo scegliamo la classe dirigente, cioè la scelta di quelle persone che avranno il compito di fare le scelte per la nostra società. Allora se votiamo con un sistema avremo la scelta di un tipo, se voteremo con un altro avremo la elezione di un altro tipo di persone o personalità..
E' particolarmente interessante la riflessione di Gustavo Zabrebelsky presidente emerito della Corte Costituzionale, pubblicata su Il Fatto Quotidiano del 0.01.2015.
Il merito,
secondo la Corte.
Il
nucleo costituzionale della decisione è
nella seguente duplice affermazione:
a) l’alterazione
della proporzionalità attraverso premi di maggioranza è
possibile, in vista dell’obiettivo perseguito, che è la stabilità
di governo e l’efficienza dei processi decisionali, ma non deve
essere abnorme;
b) all’elezione
dei singoli parlamentari non deve mancare il sostegno della scelta
personale da parte dei cittadini-elettori (…).
a) Sebbene esista ampia discrezionalità
del legislatore nella materia elettorale, derivante dall’assenza di
una scelta costituente in favore di uno o di un altro sistema
elettorale (per quanto il sistema proporzionale per
l’elezione della Camera dei deputati sia
stato indicato come il preferibile, in un “ordine del giorno”
approvato dall’Assemblea), tale discrezionalità
non si sottrae al controllo di ragionevolezza e proporzionalità,
alla stregua dei principi costituzionali individuati negli artt.
1 comma 2, 48 comma 2, e 67 Cost. Da queste norme, in
connessione con la libertà concessa al
legislatore di configurare i sistemi elettorali secondo le proprie
valutazioni d’opportunità, dovrebbe discendere che ciascun
voto deve poter contribuire con pari efficacia alla
formazione degli organi elettivi nel momento in cui è espresso e
conteggiato, ma non anche che debba avere lo stesso
peso nel momento del risultato (…). Poiché il premio
elettorale non è subordinato alla conquista da parte del premiato di
un certo numero minimo di consensi, la
legge che lo prevede non opera una ragionevole mediazione. Essa
sacrifica smodatamente o sproporzionatamente il
principio di rappresentanza, subordinandolo incondizionatamente alla
funzionalità delle Camere. In definitiva, rispetto all’obiettivo
perseguito – sono parole della Corte –
la disciplina del premio di maggioranza determina
un’eccessiva compressione della funzione
rappresentativa delle Assemblee, nonché dell’uguale diritto di
voto (evidentemente: rispetto al risultato), tale da produrre
un’alterazione profonda degli equilibri su cui si fonda l’intera
architettura dell’ordinamento costituzionale vigente (…).
b) Il voto limitato alla sola scelta
di liste di candidati predeterminate da
altri (partiti o simili), secondo la Corte, “ferisce la logica
della rappresentanzaconsegnata nella Costituzione”. Ciò
significa che la rappresentanza politica non può trasformarsi e
ridursi a investitura fiduciaria nei confronti dei partiti. Il
sistema delle liste bloccate è, per
l’appunto, il metodo di questa trasformazione e di questa
riduzione: il partito si presenta all’elettorato con un “prendere
o lasciare” di un “pacchetto” che l’elettore
– per così dire – non può spacchettare. Il principio contenuto
nella sentenza è chiaro: il diritto dell’elettore non può ridursi
a una adesione in blocco. Ciò implica la
necessità che il voto di lista, nei sistemi elettorali che lo
prevedono, si accompagni a un voto di preferenza di
candidati. Le liste bloccate impediscono questo voto, poiché la
determinazione delle candidature, secondo il sistema elettorale
dichiarato incostituzionale, era monopolizzata
dalla dirigenza dei partiti che, stabilendone l’ordine,
predeterminava anche l’esito delle elezioni entro il numero di
seggi spettanti a ciascuna lista di partito, secondo l’esito
elettorale. In questo modo il ruolo degli
elettori finiva semplicemente per ridursi alla
distribuzione dei pesi tra queste rappresentanze (con l’aggravante
dell’effetto straniante delle candidature multiple e
della relativa possibilità di opzione tra i collegi diversi). Qui
sta il nucleo dell’argomentazione della Corte: la sostituzione a
un tipo di rappresentanza (dei cittadini elettori) con un altro tipo
(dei partiti).
Tuttavia, in altre proposizioni della
motivazione, l’accento cade non più sulla “indicazione personale
dei cittadini” ma sulla “conoscibilità dei
candidati” da parte degli elettori, conoscibilità resa impossibile
o difficoltosa in presenza di liste lunghepresentate
in collegi assai ampi. C’è dunque un’oscillazione tra conoscenza
e indicazione. Le liste bloccate, nell’ordine
d’idee della conoscibilità, sembrano diventare possibili, purché
brevi. Se, invece, il criterio è l’indicazione, cioè la scelta
del candidato, la conoscenza, non è sufficiente. La conoscenza
è ovvia condizione dell’indicazione, ma
conoscenza e indicazione sono due cose diverse.
Che cosa ha voluto dire la Corte, non è
chiaro. Nella parte finale della motivazione sul punto, l’intreccio
dei due motivi della decisione s’intersecano senza sciogliersi: il
voto dato alla lista bloccata si mescola all’ignoranza circa
l’identità dei candidati, come motivi d’incostituzionalità.
Sulla base delle ragioni suddette, la Corte ha deciso l’introduzione
di un voto di preferenza, come conseguenza
necessaria per ristabilire il rapporto di rappresentanza tra elettori
ed eletti, garantire la libertà di voto ed evitare la coartazione
della volontà degli elettori, altrimenti
obbligati a sottostare alla determinazione dell’ordine delle
candidature. Soluzione obbligata? Sebbene la Corte dica che, in
astratto, vi possono essere soluzioni alternative (liste
bloccate solo in parte, circoscrizioni elettorali di dimensioni
ridotte che si avvicinano ai collegi uninominali), nell’impianto
generale della legge sottoposta al controllo di costituzionalità,
cioè in concreto, la soluzione minima e obbligata (e perciò
possibile senza violazione della discrezionalità del legislatore) è
apparso il voto di preferenza (…).
Le conseguenze, secondo la
Corte. Nelle ultime proposizioni della sentenza, la
Corte lancia prospetticamente una serie di dictasugli effetti della
sua decisione con l’intento palese di evitare un temuto tracollo
istituzionale. Tali effetti – dice la Corte – si produrranno
evidentemente solo in occasione delle successiveelezioni.
L’evidenza, evidentemente, non c’è, poiché, se così fosse, non
ci sarebbe stato motivo di dire alcunché, come accade nella
generalità delle decisioni costituzionali, il cui seguito si
dispiega pacificamente secondo norme e principi
riconosciuti. L’esito delle elezioni svoltesi in base alla
legge incostituzionale – dice la Corte – e gli atti compiuti dal
Parlamento così eletto non sono“toccati”.
Varrebbe, con riguardo al passato, il limite dei “rapporti
esauriti” o del “fatto concluso”. Per il futuro, varrebbe,
invece, il “principio fondamentale della continuità
dello Stato”, principio che riguarda tutti i suoi organi
e, per quel che qui interessa, il Parlamento. Così, anche gli atti,
legislativi e non legislativi (come leelezioni di titolari di
cariche dello Stato) da questo compiuti in avvenire non sarebbero
invalidi per il fatto di provenire da un Parlamento eletto
incostituzionalmente. Ci troveremmo (ci troviamo e ci troveremo)
nella condizione – che la Corte non considera affatto
contraddittoria – di dover considerare validi o
“validati” atti di organi i cui titolari occupano i loro posti
illegalmente.
Le conseguenze: commento ai
commenti. La sentenza della Corte distingue a seconda
del tempo di vigenza della legge elettorale, prima o dopo la
dichiarazione d’incostituzionalità. Per quanto riguarda il tempo
anteriore, è unanime il riconoscimento di buon senso, oltre
che di diritto, che ciò che è stato fatto non può essere posto nel
nulla creando un vuoto giuridico di quasi
dieci anni (nell’immediato della sentenza, anche chi scrive ha
fatto riferimento al principio di continuità, in questa accezione
retrospettiva). Il “rivestimento giuridico” di questo buon senso
può avvalersi dei diversi argomenti sopra riferiti. La Corte si
appoggia sul “fatto concluso”, argomento che,
certamente, può essere accolto con riguardo alle legislature che
hanno preceduto l’attuale e che si sono chiuse con lo scioglimento
delle Camere. Ma, può valere con riguardo all’attuale?
Si tenga pure fermo che il “fatto
concluso” sia applicabile non solo alle legislature pregresse, ma
anche alla legislatura in corso, con riguardo
alle operazioni di composizione delle Camere che si siano esaurite.
Ma, tali operazioni si compiono e si concludono con la proclamazione
degli eletti – come ritiene la Corte – o con laconvalida della
loro elezione? La domanda si traduce in quest’altra: la convalida
deve avvenire alla stregua della legge (dichiarata) incostituzionale
o alla luce della legge mondata dai vizi
d’incostituzionalità? Nel caso in cui occorra poi rimpiazzare per
surrogazione i deputati e senatori che hanno lasciato libero il loro
posto in Parlamento (per entrare a far
parte del Parlamento europeo, ad esempio), gli eletti subentranti
saranno ancora quelli individuati alla stregua della legge
incostituzionale? Dire: alla stregua della legge dichiarata
incostituzionale, equivale asospendere, per un tempo
indefinito, gli effetti invalidanti della sentenza
d’incostituzionalità, riducendola a grida impotente. Si vede in
quale groviglio di questioni siamo incamminati. Per uscire dal quale
la via più semplice è quella dell’ultrattività della
legge dichiarata incostituzionale. Ma, l’ultrattività è
compatibile con le norme che disciplinano gli effetti delle sentenze
d’accoglimento della Corte costituzionale?
La Corte non sembra porsi problemi
troppo difficili, poiché essa ritiene che, comunque, tutto resti
fermo e valido, sia con riguardo agli atti anteriori che a
quelli posteriori alla sua sentenza, sulla
base o del “fatto concluso” o della “continuità dello
Stato”. Ad abundantiam, la sentenza mette insieme al
principio di continuità dello Stato due norme costituzionali (gli
artt. 61 comma 2, e 77 comma 2) che riguardano la perduranza di
funzioni di Camere regolarmente elette fino al momento in cui
subentrano le successive. Sono riferimenti inconferenti, tuttavia,
perché hanno a che vedere con specifiche, prevedibili e quindi, in
questo senso, normali esigenze di continuità, ma certamente non
riguardano (anzi, potrebbero essere interpretate esattamente a
contrario) la situazione abnorme, aberrante, di
Camere prive di titolo conforme alla Costituzione.
Il ricorso al principio di continuità
dello Stato, nei termini della sentenza che si commenta, è definito
“devastante” da Lanchester. All’evidenza,
ci deve essere stato qualche disagio nello scrivere questa parte
della motivazione nella quale abbondano inconsuete parole
d’auto-sostegno, quasi in funzione di difesa preventiva: non solo
l’“oltre ragionevole dubbio”, anche un “è evidente”,
un “è appena il caso di ribadire”, un “vale appena ricordare”:
tutte espressioni che, se fosse davvero così, non avrebbero avuto
ragione d’essere state scritte. Siamo di fronte, infatti,
nientemeno che allacontraddizione del principio
in base al quale possiamo dire di vivere in uno “stato
costituzionale” e non, semplicemente, in uno “Stato che
ha una costituzione” o sotto una “costituzione dello Stato”.
Con linguaggio preciso: Verfassungsstaat controStaatsverfassung.
Lo “Stato che ha una costituzione” è
quello cui si attribuisce una sostanza politica, un’esistenza reale
e autonoma che precede e, dunque, condiziona la Costituzione. La sua
massima è rex facit legem. L’esistenza d’una costituzione è
soltanto un’eventualità: importante ma non essenziale.
L’essenziale è lo Stato. Se tra la
Costituzione e lo Stato si crea una contraddizione, allora la
costituzione cede allo Stato e lo Stato può scrollarsi di dosso
l’ingombro rappresentato da una legge ch’esso stesso, per tempi
più tranquilli, si è data. Chi è il sovrano?
È lo Stato, come dice implicitamente la Corte, o è la Costituzione
(o il popolo che agisce nelle forme e nei limiti della Costituzione)
come dice l’art. 1 comma 2 Cost. e come pretende la tradizione del
costituzionalismo alla quale diciamo di appartenere, la quale si
riconosce nella massima contraria lex facit regem?
Quando si guarda dietro alle parole, si vede che dietro lo Stato
stanno forze politiche e si può concludere con l’inquietante
constatazione che la sentenza della Corte, liberandole
dal vincolo della Costituzione, ne ha legittimato la nuda forza,
priva di diritto, e ha decostituzionalizzato la
politica. Sorge la domanda: fino a quando la Costituzione, che pure
ha mostrato il suo volto nella parte sostanziale della sentenza potrà
essere lasciata da parte? Fino a quando? Fino a “nuove
consultazioni elettorali”, dice la Corte. Alessandro
Pace fa osservare che ciò non significa, di per sé,
“fino alla scadenza normale della legislatura”. Nel mondo della
politica, invece, le nuove consultazioni s’intendono quelle
alla scadenza quinquennale, a meno dello
scioglimento anticipato delle Camere cui si addivenga per ragioni
indipendenti dalla sentenza della Corte che ne ha sancito
l’illegittimità costituzionale.
Ma, se questo Parlamento, prima della
sua scadenza (come appare ben possibile, se non probabile, guardando
i primi passi della riforma elettorale voluta dal governo) approvasse
una legge incostituzionale tanto quanto quella
annullata dalla Corte e sulla base di questa legge si andasse a
votare, varrebbe ancora la dottrina della continuità dello Stato per
sanare il vizio costitutivo del Parlamento
successivo? In realtà, la risposta al “fino a quando” è
incerta; potrebbe essere: fino a quando piacerà a
chi è al governo. Il principio di continuità dello Stato proietta
la sua ombra molto lontano. Ecco dove porta il realismo di
cui la Corte ha dato prova nella parte finale della sua sentenza: un
realismo contro la Costituzione. Almeno, se avesse taciuto e non
avesse trasfigurato un argomento fattuale in argomento di diritto
costituzionale e non l’avesse trasformato in dottrina giuridica
positiva, non avrebbe sollevato dalle loro responsabilità coloro che
avevano – e hanno – il compito di provvedere quanto prima
possibile al ripristino della normalità costituzionale.
La dottrina medievale e poi i padri del
costituzionalismo moderno distinguevano due tipi di tirannia: ex
defectu tituli e quoad exercitium. La
distinzione è perenne e vale anche nel nostro caso. Nel diritto
monarchico, il titulus legittimo stava
nell’accertata discendenza regale; nel diritto democratico, sta
nella regolare investitura elettiva. Quando l’azione dei governanti
(l’exercitium) è benefica, si passa facilmente sopra la
questione dell’origine del loro potere (il titulus).
Ma, quando benefica non è più, è
inevitabile che i cittadini si domandino il perché dell’obbligazione
politica, cioè si chiedano quale ragione c’è di ubbidire
a uno che, oltre che non benefico, è anche abusivo. In epoca
monarchica, le controversie sulla legittima successione erano la
fonte dei contrasti politici più acuti. La stessa cosa, cambiati gli
addendi, non c’è motivo perché non si possa riprodurre in epoca
democratica. Meglio fermarsi qui.
di Gustavo Zagrebelsky
da il Fatto Quotidiano del 2 gennaio 2015
da il Fatto Quotidiano del 2 gennaio 2015
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